VICE #4 – LA POESIA è MORTA ED IL SUO CORPO è ANCORA CALDO
Avevo appena finito di scrivere quando, quella notte di domenica ventinove marzo, mi misi alla finestra.
Il modem era spento, come spento era anche il telefono. Davanti a i miei occhi il cielo brillava ed io respiravo a pieni polmoni l’aria gelida.
Accadde che, dinnanzi a quello spettacolo, il corpo mio fu soggetto ad una serie di moti rapidi e convulsi. Fu come se quella fantastica realtà mi avesse restituito l’immagine della fragile condizione umana. Così mi misi a contemplare le stelle e “lascia che le stelle mi guardassero”, nella mia solitudine. La solitudine di un uomo che la quarantena aveva vinto.
Lo sguardo poi cadde sulla piccola casetta dirimpetto, e guardando a lungo l’alto arbusto sempreverde, che si ergeva maestoso in quel giardino, mi lascia trasportare dalla frenesia.
Colpito sul piano affettivo, decisi che dovevo mostrare a tutti ciò che avevo visto con i miei occhi, e così mi accinsi a prendere il telefono. Ero in preda all’estasi, nonché morso dal desiderio di comunicare alla comunità virtuale il mio attaccamento alla vita.
In un stato di minima coscienza, tuttavia, riuscii a ragionare sul senso delle mie azioni, soppesai i vari aspetti della situazione e mi resi conto che mi ero indaffarato troppo. La poesia era morta nel momento in cui, anziché viverla, la volevo privare della sua libertà. E da quel momento non ho più trovato le parole giuste per comunicare ad altri ciò che ho sentito.
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Photo by Justin Ficklin from FreeImages
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